giovedì 29 marzo 2012

Due cuori e una capanna

Questo post è dedicato soprattutto alla mia amica Eli, che riceve via radio ssb questo blog ovunque io sia, anche in mezzo al mare, e lo trascrive su internet: la radio ssb, si sa, non teme mancanze di campo cellulare o di linea adsl, non conosce che i limiti della propagazione.
Cara Eli, grazie: leggi fino in fondo e saprai il perché di questa dedica!
Da qualche giorno siamo arrivati a Coco Bandero, che è una piccola isola da cartolina: una lunga spiaggia bianca con un basso fondale di acqua azzurra acqua chiara, costellato (è proprio la parola giusta!) di stelle marine grandi fino a 30 centimetri da punta a punta, si trasforma in un tratto di alte dune sabbiose, da cui le bambine scivolano e rotolano con grandi risate, rialzandosi impanate di sabbia fine.
In mezzo all'isola fa bella mostra di sé un gigantesco caiucco, scavato in un unico tronco d'albero, che funge da tavolo per grigliate o pic nic.
Dall'altro lato dell'isola c'è una capannuccia di bambù e foglie di palma, costruita in maniera un po' abborracciata e senza la consueta perizia kuna. E' troppo piccola per ospitare una famiglia kuna e mi chiedevo per quale motivo fosse stata costruita, fino a quando ho saputo che questa capannetta è stata costruita da un velista, per fornire adeguato riparo alla moglie incinta di ormai nove mesi che, catturata dalla magia del luogo, aveva deciso di partorire qui il suo primo figlio: in mezzo all'isola deserta di Coco Bandero, nella capannetta di frasche, senza nemmeno un calderone di acqua bollente, che non ho mai capito a cosa serva ma che c'è persino in Via col Vento, quando Rossella O'Hara aiuta Melania Wilkes a partorire in mezzo all'incendio di Atlanta assediata dagli yankees.
L'idea era romantica, ma il parto resta pur sempre la prima causa di decesso femminile nel mondo, e qualcosa non deve essere andato secondo programma, se nel cuore della notte è stato per loro necessario salpare in fretta e furia alla volta di Narganà, con i rischi che comporta una navigazione notturna tra i reef corallini anche per chi queste zone le conosce bene.
Come sia finita non lo so, ma so che nessun bambino è nato nella capannetta di Coco Bandero, nessun vagito ha rotto il silenzio dell'isola nell'alba rosea, e la capannina è ancora lì che attende.
Avanti la prossima!

venerdì 23 marzo 2012

Galloni, gallette... galli

Finalmente da qualche giorno è uscito il sole, e con lui tutto il tripudio di azzurri e turchesi di questo mare. Siamo ancorati vicino a Tiadup, una bellissima isola circondata da una larga piscina naturale di acque basse e cristalline, territorio di caccia di alcune razze leopardo dall'elegante volo alato marino.
Nonostante la bellezza, questa zona è abbastanza poco battuta , perché qui non arriva bene né la rete cellulare, né i barconi che fanno il giro degli ancoraggi per rifornire le barche di generi di prima e seconda necessità.
A proposito di questi barconi, qualche settimana fa ne è arrivato uno sottobordo, carico di frutta e verdura, e al termine della mia spesina ho sentito una domanda bizzarra. "Pollo?" mi ha chiesto il venditore. "Pollo?" ho ripetuto perplessa io, con un punto interrogativo sospeso sulla testa. Non riuscivo a capire che cosa volesse, i kuna non allevano il pollame. "No tiengo", ho risposto, pensando che mi stesse chiedendo se ne avevo io. Poi, colta da illuminazione, mi sono sporta per cercare il pesce sul suo barcone: dopo tutto, anche da noi in Italia la "gallinella" è un pesce! "Pescado?" ho chiesto, fiduciosa. "No, pollo!" ha esclamato lui, aprendo un grosso contenitore in polistirolo, nel quale, con mio sommo orrore, erano stipate, tra il ghiaccio, confezioni su confezioni di pollo surgelato, tipo quello che abbiamo nei nostri supermercati. E così, niente più "pescado", in compenso è arrivato il pollo, per i kuna è una prelibatezza.
Ieri sera guardavo i pesci argentei compiere grandi balzi vicino alla barca durante la loro caccia serale, e gustavo il delizioso filetto di pargo pescato da Alessio, cucinato in salsa di pomodoro con capperi e olive, che sul banco di una nostra pescheria costerebbe un occhio della testa.
Pensavo alle batterie di polli panamensi, stipati uno sull'altro a crescere alla luce artificiale, destinati a finire nei piatti tradizionali kuna al posto del pesce, con somma contentezza di tutti.
E riflettevo, e non per la prima volta, che il mondo è strano, e a volte non ne vengo a capo. Ma quale sia il dritto e quale il rovescio non mi riesce sempre di capirlo, e forse in fondo nessuno lo sa!

sabato 17 marzo 2012

Pioggia di banane su di noi

Ehi, chi ha fatto la spia? Dopo il mio post di sfogo su quanto la nostra barca sia permalosa e vendicativa, l'indicatore di profondità nel pozzetto ci ha lasciati nel bel mezzo della navigazione... come volevasi dimostrare!
Bellissima bolinata da Narganà con mare piatto e tanto vento, forse un filo troppo invelati perché abbiamo messo più volte la falchetta in acqua: il che, tradotto, vuol dire che quando si risale il vento la barca procede inclinata, talvolta talmente tanto che uno dei suoi bordi finisce immerso in acqua, e seduti nel pozzetto si può guardare il mare... dall'alto in basso! All'interno della barca, tutto ciò che non è stato ben fissato vola da una parte all'altra della barca, e per camminare è necessario tenersi saldamente ai tientibene (che infatti non sono stati chiamati così a caso!).
Qualche notizia spicciola dalla Purple Family: negli ultimi giorni il tempo è stato infame, pioggia e vento forte quotidiani, umore a bordo ondivago, bambine a tratti litigiose, spleen in agguato. Le bambine hanno giocato a carte talmente tanto che mancava loro soltanto un bicchiere di whisky, una nuvola di fumo stantìo e una pila di dollari sul tavolo per poterle visualizzare in qualche bisca clandestina nei sobborghi di New Orleans.
Anna ha iniziato una collezione di semi che sta raggiungendo proporzioni preoccupanti e che non pare esser vicina a conclusione, Chiara glieli sottrae sistematicamente tutti, nascondendoli in tutti i recessi della barca con conseguente caccia al tesoro di tutta la famiglia, tra gli alti lai di Anna.
In questi giorni ho compiuto diversi errorucci di valutazione, da vera principiante: il primo è stato di tagliare i capelli ad Alessio a prua, in una giornata ventosissima: alla fine del taglio, con orrore ci siamo resi conto che la coperta era cosparsa a tappeto di capelli tagliati, e l'equipaggio, armato di straccio e ramazza, ne ha avuto per un paio d'ore.
Il secondo è stato comprare diversi caschi di bananine verdi, che abbiamo appeso fuori, sotto i pannelli solari: forse pensavo che maturassero una alla volta, permettendoci di allungare mollemente la mano e coglierne tre o quattro al giorno, con comodo e secondo nostre necessità. Invece, dopo un solo giorno tutte le banane sono passate contemporaneamente, stile semaforo, da un bel verdone militare a un chiassoso giallo canarino e, dopo un giorno ancora, hanno cominciato a cadere spontaneamente dai caschi con dei secchi "toc". Il consumo di banane giornaliero è aumentato esponenzialmente, poi c'è stata la prima defezione da parte di Anna (mamma, basta, non ne posso più di mangiare banane), poi ha ceduto Chiara che, siccome è ghiottissima di banane, ha resistito stoicamente, finché all'ennesima domanda "Chiarina, la vuoi una banana?" ha sentenziato, seccamente "A me non piacciono PIU' le banane!".
Quando la pioggia di bananine è diventata una ossimorica grandinata molliccia, ho a malincuore buttato tutto a mare.
Appena in tempo: cominciavo ad avere la sensazione che mi stessero crescendo la pelliccia e la coda!

sabato 10 marzo 2012

La vita è una parabola, o forse una parabolica

Eccomi qua, in questi giorni abbiamo girato parecchio, ci siamo mossi prima verso Cangombia, che ha una spiaggia bellissima piena di stelle marine ed è completamente riparata dal vento ma, siccome tutto ha un prezzo, è infestata dalle citras, ovvero insettini minuscoli, praticamente invisibili a occhio nudo, il cui morso causa bollicine che rimangono pruriginose per giorni e giorni, con conseguenti furiosi grattamenti notturni. Abbiamo poi fatto tappa a Narganà, che è il villaggio Kuna più vasto e popoloso dell'intero arcipelago, dotato di una scuola, di un ospedale e persino di una banca. Narganà mi ha riservato la prima vera amara sorpresa di queste isole, perché rispetto a due anni fa è radicalmente cambiata: i tetti di larghe foglie di palma o banano sono stati sostituiti da tetti di lamiera o forse ethernit, su ognuno dei quali svetta la sua brava parabolica: a Narganà è arrivata la tivù satellitare, a fare finalmente sulla popolazione Kuna il lavaggio del cervello che nessuna invasione occidentale, sotto forma di barche o turismo vario, era riuscita finora a fare, ovvero scalzare la cultura secolare Kuna per sostituirla con quella del consumo, e per indurre finalmente qualche bisogno in una popolazione che per secoli non ne ha avuti affatto. E dunque, i bambini che prima sciamavano sorridenti per le strette viuzze sabbiose, correndo, giocando, interrogandoti curiosi e facendoti dono di grandi e bianchissimi sorrisi, sembrano scomparsi. Li intravedi imbambolati davanti alla tivù per ore, mentre lentamente, sottilmente, giorno per giorno viene loro ripetuto che non si può vivere felici senza questo o senza quello, e non importa se i loro avi lo hanno fatto per secoli, il mondo è cambiato e indietro non si torna, lo dice la tivù che ha sempre ragione. Quasi scomparsi e maltenuti anche i negozietti in cui ferveva il commercio, quando siamo entrati a far provviste di frutta e verdura in una tienda un tempo piena di attività e clienti, il proprietario si è alzato di malavoglia dalla sua amaca, lo sguardo sempre fisso sul grande schermo, impaziente di tornare alla sua miniserie tivù, mentre due pappagallini verdi, in una minuscola gabbietta, si beccavano furiosamente.
Una mia cara amica un giorno scrisse che forse bisogna arrivare ad aver tutto per desiderare di non possedere nulla, ma io non concordo.  Perdonate la mia vena odierna di invettiva catoniana (o forse dovrei dire catodica?!) ma io credo sinceramente che questo popolo, un giorno non lontano, dirà o penserà, e con ragione, che si viveva meglio quando si viveva peggio...

mercoledì 7 marzo 2012

Piove, piove, la pompa non si muove... più

Siamo arrivati a Cayo Hollandes, fuori piove e tira vento, si è rotta l'autoclave (cioè l'affare che pompa elettricamente l'acqua dolce fuori dal serbatoio), una montagna di piatti sporchi attende di essere lavata, Alessio munito di pila frontale opera a cuore aperto la pompa.
Sono giunta a una conclusione: la nostra barca è gelosa, dispettosa e vendicativa. Guai a muoverle una minima critica, o peggio a fare un complimento ad alta voce a un'altra barca, o anche solo a esprimere un muto desiderio per una doccia calda o un giro di lavatrice. L'offesa mortale è stata lanciata, e si può star sicuri che il conto verrà servito al momento giusto. Ad esempio, si romperà la drizza del fiocco durante la traversata dell'Oceano Atlantico (dicembre 2005), oppure partirà il termostato del frigorifero costringendoti a spegnere e riaccendere il frigo manualmente ogni due ore (gennaio 2007), oppure morirà il generatore eolico quando è la tua unica fonte di energia alternativa, obbligandoti ad accendere il motore svariate ore al giorno per ricaricare le batterie (2009), poi siccome il motore a quel punto è diventato necessario, cederà la cinghia dell'alternatore del motore stesso (sempre 2009), o ancora, si romperà il pilota automatico incollandoti al timone per ore nelle lunghe navigazioni (2010) e, dulcis in fundo, passerà a miglior vita il frigorifero, visto che hai due bambine piccole a bordo, chili di parmigiano e prosciutto e litri di latte da conservare (2010).
Poiché la barca sa attendere e la vendetta è un piatto da gustare freddo, prima che si rompa qualche sistema essenziale per la qualità di vita di bordo devono verificarsi le seguenti circostanze: vento a 25 nodi fisso con raffiche a 30 nodi (corrispondenti, per i terricoli, a una sessantina di chilometri orari), pioggia intermittente a intervalli fissi, con scrosci a cortina, equipaggio murato in barca.
La configurazione post rottura è sempre la stessa: barca sventrata, pezzi di ricambio e utensili da tutte le parti, padre sporco di grasso o olio a testa in giù in qualche gavone, madre con pettinatura a schiaffo fatta dal vento che latra "NO" in continuazione, in preda al cabin fever, alle sue figlie in assetto variabile:
a) esplorativo: quanti begli utensili, quante belle viti, anzi ci piace proprio questa qui che è l'unico esemplare in grado di entrare nel ricambio che sta aggiustando papà, oops ci è caduta in sentina! Scuuuuusa!
b) litigioso: fatti in là, no fatti in là tu, no tu, no tu c'ero prima io, no io, uhaaa mamma mi ha picchiato sulla testa, buahhh papà ha cominciato lei, sei brutta, no brutta tu, no tu, eccetera.
c) enciclopedico: papà che cosa stai facendo? Perché lo stai facendo? Perché si è rotto? Perché avviti quello? A che cosa serve questo? Quando finisci? Perché non funziona? Perché non mi rispondi? Perché ti devi concentrare? Non si diiiiice quella parooooolaaaaaa!
Oh, mi raccomando, acqua in bocca, che tutto questo resti tra di noi: se una sola parola giunge all'orecchio della nostra barca, potrebbe capitare che la randa decida di stracciarsi durante la prossima navigazione!

domenica 4 marzo 2012

Acqua, cuoco, cuochino

Non c'è nulla come la barca in grado di mettere l'essere umano a confronto con i propri limiti. Nel corso di tutti questi anni di vela, ho perso la conta dei miei limiti come persona, come compagna e come genitore. Alcuni sono stati per me una sorpresa, altri una ineluttabile conferma, come ad esempio il mio limite come cuoca. Provengo da generazioni di cuoche sopraffine, eppure non ho ereditato il gene della buona cucina, nonostante abbia avuto un Dolce Forno di ordinanza e un'infanzia regolarmente passata ad assistere in cucina a manufatti culinari di ogni genere: non possiedo l'istinto assassino dell'ingrediente segreto, non padroneggio il "pizzico" di sale, ho il terrore del "quanto basta", l'"a piacere" mi mette ansia. Il mio primo esperimento di pane a bordo, sette lunghi anni orsono, ha avuto come risultato un oggetto adatto per la disciplina olimpica di lancio del peso . Il mio primo pesce sfilettato, al termine dell'operazione, sembrava uscito direttamente dal frullatore, pronto per una tartare. Quando mi metto ai fornelli io, la cucina è un delirio di pentole e piatti sporchi, circa due terzi in più di quanti ne utilizzi Alessio per cucinare la stessa cosa. Poiché la barca è un ambiente particolarmente ostico anche per la cuoca più navigata (mi si passi il gioco di parole!), per anni ho cercato speranzosa una velista gemella di inettitudine, (dopo tutto uno come Moitessier mangiava biscotti per cani!), ma invano: il popolo delle donne veliste giramondo è capace di mettere a tavola dieci persone in mezz'ora di preparazione, chiacchierando amabilmente come se niente fosse, si scambia per radio complicate ricette di sformati ed elaborati dolci al cucchiaio, e come il Cuoco Svedese dei Muppets lancia il pesce in aria mulinando coltelli affilatissimi e il pesce ricade nel piatto in filetti ordinati e perfettamente puliti, pronti per essere messi in forno o passati in padella.
C'è da dire che molte lo fanno di mestiere (intendo saper cucinare bene) perché le loro barche fanno charter, ovvero offrono delle minicrociere a pagamento sulle loro barche a ospiti paganti, tuttavia il mare pullula di casalinghe perfette, per piacere e non per necessità. A volte però dalla conversazione spicciola arriva un piccolo conforto. Ad esempio, ieri siamo stati invitati a cena su una barca e siamo stati immancabilmente serviti di ogni prelibatezza: "ma tu che cosa facevi prima di imbarcarti?" ho chiesto alla marziana  "La cuoca in un ristorante" mi ha risposto lei, con un largo sorriso.
Aaaaaah, beh!